Quando mi hanno insegnato a camminare, non ne ho contezza ma certezza, mi hanno impartito anche le nozioni fondamentali per evitare ogni forma di caduta.
Contestualmente, non in conseguenza del primo cedimento. È una sorta d’eredità biologica, nella mia famiglia, la necessità di tentare di prevenire ogni forma di calamità, anche solo lontanamente inscrivibile nell’ordine delle probabilità.
Di certo sono caduta nella vita, diverse volte. Ma ogni caduta, ecco, non può definirsi accidentale. Eh no, sono sempre caduta, sapendo di stare per cadere. Manifestandone la volontà. Per vedere di nascosto l’effetto che fa, probabilmente. Per permettermi una piccola umana follia.
Quel primo insegnamento, quel primo metodo per impartire regole di vita, mi ha indotto a pensare che ogni felicità, come quella provata nell’ebrezza dei primi passi, dell’emancipazione e della libertà di movimento che precede quella d’espressione, deve essere mitigata dalla lungimiranza, dalla visione prospettica seppur distorta del futuro.
Godere delle gioie ma con un senso di appagamento elegante, regale, distaccato. Insomma, mai totalizzante.
La leggerezza che serve per star dentro l’euforia è stata zavorrata per affetto. Ecco perché la riconosco solo per il suo opposto. Un principio logico che ha prodotto conseguenze che considero ancora in fase di valutazione.
Se vuoi viaggiare lontano e veloce, viaggia leggero. Spogliati di tutte le invidie, gelosie, ripicche, egoismi e paure. Pare che abbia detto così Cesare Pavese.
In effetti è nel viaggio che sento di riuscire a scappare dal portato di quel lascito educativo.
Nel movimento da un punto all’altro, c’è una cosa che non può raggiungerti: la responsabilità di quel accade sulla terra ferma. Sei fuori giurisdizione, perso in temporalità sovranazionali, impossibilitato a supportare il peso degli eventi, e quindi giustificato. Come gli astronauti che si guadagnano il privilegio di guardare in faccia la terra solo consentendo al corpo di perdere consistenza gravitazionale.
Nel podcast How to Fail di Elizabeth Day, Salman Rushdie confessa, senza falsa modestia, che le sue prime novelle non erano per niente un buon prodotto letterario e si giustifica dicendo che all’epoca, lui, non sapeva ancora chi fosse.
E quando la giornalista gli chiede se adesso, ad una certa età e dopo aver metabolizzato l’audace incontro con la morte, pensa di conoscere la propria identità, lui risponde attraverso le parole del protagonista del suo secondo romanzo “Midnight’s Children”: I am the sum total of everything that went before me, of all I have been seen done, of everything done-to-me. I am everyone everything whose being in the world affected was affected by mine. I am anything that happens after I'm gone which would not have happened if I had not come.
In sintesi, dice Salman Rushdie, we are people in a river.
Così, il mio solo modo per accarezzare la leggerezza acquista un senso. Si vive stando nel flusso del viaggio. Dove ogni cosa sfugge alle regole precostituite. Dove i passeggeri non appartengono né alla città di partenza né a quella di arrivo. E a malapena riescono a cogliere i contorni di quella che stanno attraversando.
È in questa zona di mezzo, in questo movimento impalpabile e incostante, che ci si può chiedere se si conosce la propria identità, abbozzando una risposta senza pudore. Confessandosi un sollievo inaspettato da lasciare rigorosamente tra i bagagli dimenticati.
Sarebbe bello ricordarsi di questa sensazione appena toccato il predellino in discesa. Sarebbe bello ricordarsi di aver imparato a riconoscere la leggerezza nella mancata appartenenza, nella conferma delle proprie pochezze, nel desiderio di voler essere come tutti, ma solo un po’.
È così che si frega il destino. È quando si smette di scrivere per gli altri che si riconoscono le persone, è quando si svuotano gli zaini che si possono percorrere i sentieri più ripidi, è quando si dimentica che il corpo ha un peso che ci si gode le bracciate, tenendo liberi i polmoni, e puntando gli occhi al cielo. È quando ci si espone alla volatilità senza tremori che si impara a cogliere la meraviglia in corsa, che appare solo per pochi istanti.
Solo quelli leggeri, viaggiano. Diceva Pavese.
Viaggiano, se sono leggeri, con il solo bagaglio a mano. Quindi.
E viaggiando, vivono.
Avevo provato ad impararla, anni fa, questa lezione. E riprovo con impavida e inutile costanza all’inizio dell’anno, ogni anno, da quando Gabriele Romagnoli ha consegnato alle stampe il suo vademecum. Ed è ancora qui, davanti a me, perfettamente contemporanea. Una lezione, una promessa, una visione, una speranza.
Pensate che rivoluzione sarebbe una generazione capace di scegliere sempre la libertà, di consumare soltanto il necessario, di non legarsi a nulla, di saper perdere cose e battaglie senza perdersi, di non credere in idee e fedi che le sono state date, preconfezionate, alla nascita, una generazione senza troppo passato né avvenire, ma con una inflessibile attrazione verso il presente, inafferrabile, imprevedibile, disancorata dal suolo e dal tempo. In sintonia piena e pura con l’esistenza. E poi, quando finisce, arriva qualcuno a dirti: ti sia lieve la terra. Fallo tacere. Ti sia lieve la vita.
Lieve e leggera, aggiungo io.
Senza il peso di avventure negate, senza il vincolo di perfezioni insensate, senza la pretesa di aver studiato bene ogni lezione che allontana dalla magnifica vertigine di sbagliare. Sbagliare. Il proprio predestinato posto nel mondo. La lista delle cose che ci spettano di diritto. L’orario del biglietto di andata. La stazione di arrivo. Molte delle tante risposte pretese. E a volte pure qualche domanda.
Martedì sera ho avuto un crollo insensato dopo mesi di anomala fiducia. “Sto sbagliando tutto” continuavo a ripetere senza riuscire a smettere di piangere (la verità è che quella fiducia ha fatto un po’ da tappo a paranoie che ogni tanto devono prendere aria). Ho riletto tre volte questo episodio per imprimermelo bene in testa, perché sento di meritarmela la leggerezza di cui parli. Da quando vado più spesso in montagna ho capito di avere paura dell’altezza, forse è per questo brutto rapporto con i pesi e la gravità. Ti farò sapere come va la cura di leggerezza ❤️
Ti sia lieve la vita!