Nella strana condizione in cui mi trovo in questo momento ho scoperto una caratteristica del tempo che prima ignoravo: il tempo si dilata.
Certo, in vacanza ho sperimentato una forma del tempo molto simile ma in quel caso ho sempre pensato che il tempo si fosse fermato. Ed è diverso quando il tempo si dilata.
Il tempo che si dilata è una prova di resistenza.
Il tempo che si dilata cerca di capire se riesci a non capitolare, se riesci ad arrivare dall’altra parte dell’onda, come se acquistasse una dimensione sonora. E ti permette di comprendere se quello che hai intorno resiste. Le tue volontà, le tue passioni, i tuoi desideri. Ma anche le tue relazioni con le persone e con le cose.
E in questa flessione del tempo mi sembra paradossale il fatto che io mi renda conto, molto più di quanto prima non facessi, dei giorni che passano. Li riconosco, con una chiarezza percettiva quasi dolorosa, forse perché le giornate sono diverse tra di loro. E non posso fare a meno di domandarmi perché quelle che ho vissuto fino ad ora non sono mai stata in grado di differenziarle.
Ma è proprio questa non-conformità che mi permette di vedere la vita che scorre, di chiamare per nome i giorni della settimana senza commettere troppi errori, di percepire le diverse fasi della giornata, le ore in cui è più semplice scrivere e quelle in cui è più difficile farlo, il momento in cui ha più senso cercare qualcuno e quello in cui è lecito aspettarsi che non risponda più nessuno.
Mentre la frenesia di un tempo non dilatato appiattisce ogni differenza tra le parti e tra i giorni, tra i pezzi di vita che ci metti e quelli che disperdi. E forse è questo che ci allontana, non senza un certo riverbero di nostalgia e di rammarico, da tutto quello che abbiamo costruito. Seguendo regole che non reggono il confronto con il tempo, quando il tempo si dilata.
Il programma avanzato di meditazione in cui mi trovo mi sta insegnando a fare amicizia con i miei pensieri. Esattamente in questo modo: riconoscerli ed accoglierli. Dichiarare ad alta voce che li si sta ascoltando, che li si vuole trattare come fossero amici, benevoli. Senza alcuna forma di pregiudizio. È il primo passo per dargli il benvenuto, guardarli con compassione, riconoscendo le proiezioni di noi stessi e i riflessi di tutto quello che dall’esterno riesce ad entrare. Questa visione distaccata permette di distinguere tra gli allarmi giusti e quelli sbagliati, tra le previsioni e le percezioni, tra gli avvisi che vengono a volte portati da strane vibrazioni emotive e quelli che invece sono cresciuti a mollo nel brodo più che primordiale della paura.
Che ci farò mai io con tutti questi amici? Io che non ne ho mai avuti così tanti.
Chi lo sa.
La vita non è un gioco, amico
La vita è l’arte dell’incontro.
Immagino che quando Giuseppe Ungaretti, di ritorno dal Brasile nel 37, ha iniziato a tradurre le poesie di Vinícius de Moraes non poteva immaginare che inciderle fosse una possibilità. E invece poi, più di trent’anni dopo, è nato un album che ha un titolo didascalico e profetico. C’erano dentro Sergio Endrigo, un giovanissimo Toquinho, dei turnisti della RCA e una cosa che non si può spiegare. Quella scintilla che c’è tra due persone che si trovano dopo essersi cercate per secoli. O non essersi cercate mai.
Quale destino è il mio se non d’assistere al mio destino,
Fiume che sono, in cerca del mare che m’impaura,
Anima che sono, tramando il disfacimento,
Carne che sono, nell’intimo inutile della preghiera.
Come con i miei pensieri, mi appaiono mondi a parte che collidono. Un incontro che non può essere accaduto per caso. Uno scontro avvenuto per portare a galla qualcosa di nuovo. Qualcosa di diverso.
Sono mondi a parte che collidono.
Il 2008 è stato l’anno dell’uscita di The Curious Case of Benjamin Button, basato su una novella di Francis Scott Fitzgerald, candidato agli Oscar l’anno successivo, condannato a vincere -come spesso accade- quelli sbagliati.
Ed è stato anche l’anno in cui David Fincher ha sfornato più di 4 spot, di cui uno in serie. Aveva dichiarato ‘I'm totally anti-commercialism. I would never do commercials where people hold the product by their head and tell you how great it is; I just wouldn't do that stuff. It's all inference…’ Ed è rimasto sempre fedele a questa posizione.
Anche con Fate, il non-commercial della Nike, in cui mette in scena due vite, dipanandole come fossero fili di colore diverso ma provenienti dallo stesso rocchetto di cotone. Momento dopo momento, dall’utero materno agli anni della scuola e alle prime gare, due esistenze parallele si svolgono senza apparenti punti di contatto. Anche se entrambi i bambini dimostrano una certa vocazione al superamento dei confini e di se stessi. Come se ascoltassero anche loro una The Ecstasy of Gold rivisitata e corretta, corrono entrambi, ognuno sulla propria linea di mezzeria, fino alla collisione finale. Il tempo dilatato converge verso un unico punto di fuga: l’impatto che segna l’inevitabilità del destino. L’inevitabilità del loro incontro.
Era dilatato, nella sua follia, anche il tempo degli anni 80. Lo si capisce dalla qualità VHS dei filmati dell’epoca che sembrano un pesce fuori d’acqua nel mondo dei video 4k di YouTube.
È in quel tempo dilatato che Keith Haring disegna negli spazi lasciati vuoti dalle pubblicità sui tabelloni nella metropolitana di New York.
E mi colpisce, del servizio della CBS Sunday Morning che lo segue e lo ritrae fino alla sua prima personale a SoHo, una frase in particolare:
He stalks the New York City Subways waiting for his chance to strike and when the opportunity comes he moves fast. He has to. The opportunity for Keith Haring is a blank advertising poster.
Dove il resto del mondo era rimasto muto, senza oggetti da vendere, bisogni da generare, immaginari da costruire, lui creava un contraltare. Fatto di uomini che infrangono le regole, che fanno comunità, che si abbracciano, che gattonano con i lupi, che cavalcano delfini. Alla Bowie.
Perché a volte un mondo nuovo arriva per correggere quello vecchio.
Ho rinunciato, scioccamente e caparbiamente, a Modesta per diversi anni. Io, come il resto dell’intellighenzia della letteratura italiana. Ma io, con un certo ritardo sulla loro stoltezza. Per cui, complice e negligente, ho finalmente attraversato il tempo dilatato della storia nella Storia di Goliarda Sapienza.
E mi sono portata a casa più di un insegnamento. Uno, l’ho messo da parte, così come lo ha imparato lei.
ecco che cosa dovevo fare: studiare le parole esattamente come si studiano le piante, gli animali... e poi, ripulirle dalla muffa, liberarle dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne delle nuove, e soprattutto scartare per non servirsi più di quelle che l'uso quotidiano adopera con maggiore frequenza, le più marce, come: sublime, dovere, tradizione, abnegazione, umiltà, anima, pudore, cuore, eroismo, sentimento, pietà, sacrificio, rassegnazione.
Nel tempo che si dilata si trova modo di dare il benvenuto anche alle paure più sfuggenti, si puntellano i piedi a terra, si schiaccia la schiena contro il muro e ci si fa coraggio per guardarle in faccia. Perché si sa che da lì non se ne andranno.
Si trova modo di fare la pace. Con i pensieri e con le parole che gli danno un vestito. Che hanno toni di voce meschini, che sono inviati da chissà quale aguzzino a controllare che la galera sia ancora ben chiusa dall’interno.
Il tempo che si dilata offre un conforto che viene da dentro, sepolto ma rinato. Non fa miracoli, non fa promesse ma riporta fiato ai polmoni, luce agli occhi e speranza alle vecchie stanchezze.
E questo, forse, è già abbastanza.
Da dove viene questo tempo dilatato?
Da una vita che ha smesso di dipendere dai ritmi precostituiti.
Che insegue una sua ritualità, meno ammaestrata. Piena di spigoli, spifferi,
incontri e piani per il futuro più prossimo. E per quello più lontano.
Per il resto del tempo sono una creative strategist e una copywriter.
Se vuoi saperne di più, puoi leggere le mie parole accompagnate dalle mie foto o semplicemente scoprire cosa ho fatto nella vita (e capire quante cose ho da fare ancora).