Considero un privilegio, seppur di quelli pagati a caro prezzo, il tempo concesso alla necessità di comprendere quel che accade.
Fuori, analizzando la società, parlando con le persone, esponendosi alle correnti del possibile e dell’assurdo, ma soprattutto dentro. Lasciandosi sbalordire da tracce musicali che al risveglio sembravano solo volerti accompagnare a piedi nudi nel giorno e invece servono a darti anticipazioni di pioggia mentre tu credevi sarebbe tornato il sole.
Ecco, in una di queste piccole epifanie, ho scoperto che si può fare esperienza di una forma nuova di paura. Una paura che ha dentro luce.
Chi conosce il panico sa che la paura, quella vera, si accompagna ad un senso di oppressione e soppressione, di avvenimento luttuoso in divenire, di perdita e abbandono. Di resa all’istantaneità dell’inevitabile. Ma esiste anche un timore, a suo modo più vasto, che dentro nasconde una scintilla. Una forma di terrore che non arresta ma lascia intravedere il movimento, che non mozza il fiato ma scuote docilmente, come il brivido che si interpone tra la fine della canzone e l’atto di soffiare sulle candeline.
La paura che inibisce contiene tutti i caratteri fondativi del fallimento.
La luce che vedo, quindi, è tutto quello che dall’errore si può apprendere.
Tutto quello di cui mi importa adesso è di imparare.
Da ogni fonte possibile, anche dai libri che non valgono tutto il prezzo di copertina.
Da chi pretende di sapere, da chi ha voglia di confessare, da chi teme l’ascolto e da chi non sa argomentare.
Ho scoperto che si può imparare anche dalla fatica.
Una fatica che non conosce assenza di superficialità, domata dal senso di responsabilità, ma che può illuminarsi, improvvisamente. Divertita. Come l’estroso sforzo di Freddie Mercury che vestito da donna passa l’aspirapolvere.
Forse questa luce si chiama poesia?
Nella seconda stagione di “Tutto chiede Salvezza”, che ancora mostra in dosi calibrate la vita e la penna di Daniele Mencarelli, una delle protagoniste dice: “Senza poesia l’uomo diventa analfabeta, analfabeta sentimentale. E lo stiamo vedendo, lo stiamo vivendo”.
Mi ha colpito tanto da costringermi a prendere nota del testo, parola per parola, senza l’ausilio di strumentazioni che lo avrebbero volentieri fatto al posto mio e in meno tempo, la poesia recitata dalla giovane cantante Lola Young nello spot di Mind, la Mental Health Charity inglese che nel 2022 ha pensato bene di portare in rima, con l’aiuto dell’artista, le difficoltà del suo coetaneo Haleem.
La poesia recita così:
I was a quiet child with a loud mind.
Age 5, father said big boys don’t cry.
I guess that’s why I walked blind, sunken-eyed.
Each step takes time, mother said.
Strength comes with patience, and patience comes with intent.
I didn’t have much of either, just enough to roll out of bed.
I read this book one time, the words were like flesh.
It taught me something I’ll never forget.
That dandelions are like 80% of people that can bloom in every environment.
You see, me, I’m more like an orchid instead.
I need a little more sun sometimes
and wind can send me off the edge.
One thing I’ve learned is that the mind is made of glass.
Half full or half empty, it depends on the circumstance.
But, even when I’m quiet, and even when it’s loud,
me, myself and I, yeah we’ve gotta stick around.
La campagna si conclude con un “If this speaks to you, speak to us.”.
Mi sembra incarni, più brillantemente di quanto riescano a fare le mie parole, il senso stesso di quella luce che si può accendere nell’intimità più buia di una prigione, di un tormento.
È stato pubblicato in questi giorni da Argolibri il volume “Ciò che scrivo non è scrivere - modelli di pensiero, problemi di poesia” che riunisce per la prima volta in Italia 3 dei tanti quaderni di Paul Valéry. Come “Il mestiere di vivere” di Cesare Pavese, questa raccolta contiene sprazzi di luce, schegge impazzite di lucidità e folli percezioni di verità che però non hanno niente a che vedere con la forma del diario.
I quaderni di Valéry ospitano quella forma di scrittura che lui considerava potenziamento della mente e che gli faceva riempire quaderni su quaderni, ogni giorno, tra le quattro e le sei del mattino. Una forma ibrida, cito dalla presentazione di minima et moralia, tra “poesia in nota” e “annotazione di vento poetico”.
É stata un’ennesima epifania questo estratto:
Poeta – La mia opera non viene da un bisogno – è il lavorio mentale ad essere in me bisogno – (a cominciare dallo stimolo). Ciò che mi stimola – mi stimola a questo stesso lavoro e non al suo prodotto – (se non fosse che l’idea di prodotto è, in quanto scopo, condizione del lavoro – ma non la sola né la principale). L’opera, dunque, è ai miei occhi applicazione. Mentre per la maggior parte delle persone, essa è il capitale dell’istante.
Tremo ancora davanti all’incertezza.
Soprattutto davanti a quella che si annida tra vocali, virgole e consonanti che spesso sembrano isole sconosciute in mezzo a un mare in tempesta. Ma mi basta ridargli voce, immergermi nella loro lettura, e ogni cosa appare meno densamente oscura. Arrivano barlumi di prospettiva. Di futuro. E quello che mi sembrava estraneo, torna ad essere l’unica casa possibile. E quello che sembrava un tradimento, torna ad essere un atto d’amore necessario.
Il lavoro mentale, lo stimolo, la ricerca, lo sbaglio. Reale o presunto tale.
È da lì che arriva la luce che c’è dentro la paura.
Quella senza la quale nessuna idea ne partorisce una migliore
e nessuna parola arriva a sentirsi suonare come le note di una poesia.
Reale o presunta tale.
Grazie della condivisione
Che bella questa NL! Com'è "Tutto chiede salvezza"? Non l'ho ancora guardata 😊