La prima cosa che mi sono confessata aprendo le porte a questo autunno per me particolarmente caldo (e non parlo dei dispacci del servizio Copernicus condivisi sapientemente da Ferdinando Cotugno) è che la mia scrittura è anchilosata.
Come un arto schiacciato dal peso del resto del corpo. Uno strumento lasciato ad arrugginire mentre ci si impegna ad usare tutti gli altri, lucenti e ben in mostra nella cassetta degli attrezzi.
Probabilmente è questa confessione che ha fatto muovere al mio corpo, alle mie dita e ai miei pensieri, tutti i passi successivi. Come quelli che danzano su questo foglio.
Probabilmente è questa confessione che mi ha portato a commuovermi ascoltando il podcast di Storytel Disuniti o almeno l’episodio in cui si intervista Gian Alfonso Pacinotti in arte Gipi. A dispetto di domande non sempre brillanti, Gipi divaga, racconta e disegna mondi ben più ampi di quelli che una scialba richiesta poteva immaginare di contenere.
Nel raccontare il primo incontro con Andrea Pazienza, Gipi dice -o meglio confessa- di aver pensato: Io non disegnerò mai così (come lui, ndr) ma posso provare a vivere così, a dedicare la mia intera vita alle storie. E mi è sembrata una gran figata per un sacco di anni, adesso penso che sia l'errore più grosso che potevo commettere.
L’errore. Più grosso. Che potevo commettere.
Ho sentito in quella frase una sadica venatura di orgoglio, enormi strati di dolore, una forma di ripensamento caustico, edificato su ferite già prescritte ma anche un sottile velo di melanconica gratitudine.
Ho pensato che la mia anchilosi proveniva da qui. Dall’aver commesso anche io un grosso errore. Nell’aver storpiato la scrittura in qualcosa che servisse per portare a casa il pane.
È stato allora che, per confutare o confermare la tesi, ho chiesto asilo e conforto a Francesco Piccolo e al suo libretto Scrivere è un tic. Attraversando le pagine mi sono incazzata -e tanto- con la me che l’ha letto qualche anno fa (e se l’è pure fatto autografare da Ascanio Celestini) perché il libro è perfettamente tenuto, ha qualche pieghetta in alto a destra, quelle orribili orecchie che fanno solo gli sfaticati, ma non ha nemmeno una sottolineatura. Da dove diavolo comincio a cercare? In questi casi, mi dico, si comincia dalla quarta di copertina.
E infatti, è a pagina 97 che Piccolo mi dice quello che mi avrebbe detto se fosse venuto a casa a bersi una tazza di Tierra! Lavazza: “E poi, forse, c’è di più; non ha a che fare con la scrittura, o almeno non direttamente, e nemmeno con l’arte o la creatività. Questo cammino ci ha fatto conoscere i metodi degli scrittori, ma può servire a qualsiasi altra cosa. Ogni metodo è un mattone di un metodo più grande, quello per vivere. Potrebbe essere così. In fondo, gli autori scrivono ogni giorno inventando storie, e anche perché attraverso la scrittura forse riescono a essere delle persone migliori”.
Essere. Delle persone. Migliori.
Non è la mia capacità di scrivere ad essersi inceppata. È la mia capacità di vivere ad essersi sciupata. La capacità di sentirsi dentro gli eventi, di testimoniare le catastrofi come le felicità con un grado di partecipazione che imprime memorie tattili, visive, storiche e storiografiche.
Succede. Non di rado. Succede tutte le volte che ti lasci derubare e quando riprendi fiato dopo l’apnea causata dallo shock, sei consapevole che quello che ti è stato sottratto è molto più di quello che ti dovrebbe essere restituito.
Ma cosa c’entra tutto questo con la pubblicità?
A questa domanda posso rispondere con una sottolineatura (stavolta c’è) impressa a pagina 71 del libro Scrivere Civile di Paolo Iabichino: “A furia di insegnare la poetica del racconto e le arti dello storytelling abbiamo finito per banalizzare una serie di significanti che hanno bisogno di meno narrazione e di molta più azione. Perché la sacralità di un racconto nasce nel momento in cui le emozioni di chi abbiamo di fronte - di chi ci legge, di chi ci ascolta, di chi acquista i nostri prodotti - incontrano l’autenticità di chi parla, senza piaggeria o vanità”.
Autenticità.
E come si può pretendere di essere autentici se si racconta una vita che abbiamo smesso di frequentare per davvero?
Immergersi in ciò che ci tiene a galla, riascoltare, sentire, riconoscere ogni piccola o grande espressione d’esistenza, è questo l’unico esercizio sensato per tornare a scrivere. Qualunque forma la scrittura assuma o debba assumere. Qualunque sia l’idea, il gioco di parole, l’intuizione o avventura linguistica che la contingenza possa chiedermi di affrontare.
L’unico modo che si ha per esser certi di fare un buon lavoro è scrivere per allenarsi (e invogliare) ad essere persone migliori, autentiche. Di quelle che fuggono le banalizzazioni, hanno muscoli forti e una spina dorsale che si nota a chilometri di distanza. Solo così si può smettere (magari una volta per tutte) di pensare di stare commettendo il solito errore. Il più grosso di tutti.