Is your face telling your (real) story?
What I always find so inspiring about Maggie Smith is that her face changes with time. And there is a reality in the character of that time. We have become so obsessed by our faces now, because we have camera phones and filters but what I love, the most attractive people for me are the ones that you look at and you know that their face wears their time on this planet. Then they become so beautiful. When I met her on set, I just told her: your face tells me the history of you.
In Fashion Neurosis Bella Freud fa sdraiare fashion designer su un divano e indaga la relazione tra indumenti e personalità, tra orpelli e identità, tra storia e storiografia. Il primo episodio che ho ascoltato è la seduta di Jonathan Anderson, fondatore della sua etichetta di moda, costume designer degli ultimi due film di Luca Guadagnino e direttore creativo di Loewe. Mi stava attaccato alle orecchie mentre i miei piedi portavano a spasso gli occhi sulla riva di un fiume non ancora troppo invernale.
Su questo passaggio, in ricordo della campagna SS24 che ha visto Juergen Teller dietro la camera, mi sono ritrovata ferma senza accorgermene.
Ho rivisto la mia faccia. Ho rivisto la mia faccia riflessa nello specchio durante quella stessa stagione. Ho rivisto la mia faccia e ho visto che la storia che le si stava stampando addosso non era la mia.
A volte è l’insignificante che si fa significato.
E la vendetta di chi non è visto, di chi non si è visto se non con gli occhi di un altro (modo di stare al) mondo si palesa. Come un raggio pallido e niveo che oscura la luce, per puro paradosso.
A volte è l’insignificante che si fa significato.
Come un lampo, mentre ascolto la voce di mia madre dirmi cose che ora considero insignificanti ma che dopo -dopo- già so diventeranno macigni, ricordo piccole manie della mia infanzia. Ricostruisco.
Usavo pezzettini di lego con fervente passione e li mettevo sempre in ordine matto e disperatissimo. Le mie casette, che traducevano in architettura infantile la perentoria precisione degli onirici dipinti di Carlo Carrà, erano antisismiche e retoriche ma non avevano anima. Non avevano la temerarietà che ogni progetto deve avere, il fegato di accettare che si può anche cadere. Mattone dopo mattone. Inesorabilmente.
Oggi spenderei ore per creare ponti, porte a scomparsa, tetti con lucernari da cui non cola neanche una goccia d'acqua, torrette di avvistamento, scantinati per opere d'arte trafugate, sale da pranzo con candelabri a festa ed essere pronta a distruggere tutto. Senza alcun attaccamento. Lasciando che il destino abbia un libero arbitrio tutto suo, che io non posso controllare, giudicare o comprendere.
It is not easy to leave one self and embrace another. Your freedoms will scar you. Maybe even kill you. Or one of your yous. It’s ok though. There are more. How many times do we die? Words, like selves, are worth it.
The Chronology of Water - Lidia Yuknavitch
Inesorabilmente.
Al risveglio, dopo aver spalancato ogni finestra e ogni ferita, scopro un manto bianco appena appoggiato sopra ogni cosa. Non ha la consistenza, né l’eleganza e la nobiltà della neve. È semplice ghiaccio, una patina asfissiante che aspetta il sole. Anche lei in fondo non fa nient’altro che aspettare il sole. È un bianco animale notturno, cucito sulla superficie della terra con il favore di freddo e tenebre. Aspetta il sole anche se sa che quel calore le cambierà aspetto, geometrie, consistenza e percezione. Ma questo, tutto questo non la spaventa.
Morire, perdere, sciogliersi fino a scomparire, non è mai un fallimento.
Anzi.
Vuole tornare ad essere altro, vuole scrollarsi di dosso il mio sguardo e quello degli altri. Sa che la stiamo osservando tutti, dietro tende scostate con paura. La guardiamo come si guardano le conseguenze di un evento sconosciuto che atterrisce. Lo sa, credo che lo senta. Quella coltre bianca sembra imprigionare la vita. Quello che c'è sotto aspettiamo tutti di sapere se sopravviverà. E se sopravviveremo anche noi. Quel bianco sporco è il colore del tormento.
Sciogliersi fino a scomparire.
La rinuncia è stata il freno della mia vita, l’esempio che le donne mi hanno dato, è stato il loro sacrificarsi per gli altri, sacrificarsi anche per me. (…) Consegno loro gratitudine e perdono.
Bianco è il colore del danno - Francesca Mannocchi
Quando ho incontrato Francesca Mannocchi al Salone del Libro di Torino era il giorno del compleanno di mio padre. Era una data palindroma che segnava il raggiungimento di una cifra tonda. In una vita che si era interrotta sei anni prima.
Quando l’ho incontrata e le ho stretto la mano mi è sembrato di sentire il calore di un pezzo di famiglia. Come se le persone che indagano, dentro di loro e dentro il mondo, alla fine s’appartenessero. Con chimiche intrecciate che si riconoscono a pelle e che niente hanno a che fare con il sangue. Con l’anima, sì.
Le ho chiesto di firmare la mia copia del suo libro. Ma non sulla prima pagina, sempre vergine e pronta all’uso, ma a pagina 113, sotto quella dichiarazione di indipendenza dalla perdita di sé, elevata a lezione di vita ed esempio da imitare, che avevo sentito (che ancora sento) così mia.
Rileggerla è un tentativo di rappacificazione con il tempo. Il tempo passato e il tempo futuro. Perché il presente, al cospetto di chi non rinuncia alla sua presa sul vissuto, mescola tenerezza e rabbia in dosi non consentite alla pace.
Mentre invece quello che voglio è fare la pace. Con le promesse che non mi sono mai state fatte, con quelle che io non sono in grado di mantenere, con i ricordi ruvidi di momenti dolci, con le risate estorte alle storture dell’egoismo inconsapevole.
Mentre invece quello che voglio è fare pace. E innamorarmi ancora. Innamorarmi di ciò che ho intorno, di quel che ho per le mani, di quello che so fare e di quello che non saprò fare mai. Di quello che mi hanno insegnato può macchiarti l’esistenza e che invece, ho scoperto, te la riempie di senso. Innamorarmi delle strade senza uscita e dei dolori senza ritorno. E magari anche un po’ di me.