Gli ossimori che fanno riflettere.
Durante la sessione di meditazione di ieri mattina la voce guida della app, a un certo punto, mi ha invitato a trovare una posizione in cui sentirmi rilassata e vigile. I due aggettivi usati, per essere precisi, sono stati relaxed e alert.
Era la prima volta, pur meditando da più di due anni, che sentivo quel tipo di invito. Un ossimoro bello e buono a cui non ho smesso di pensare rendendo il mio focus sul respiro ancora più difficile di quanto non sia già tornato ad essere nelle ultime settimane.
Relaxed alertness, scopro facendo una ricerca online, è proprio lo stato characterized by being fully aware and focused, yet with an effortlessly calm mind. L’isola salvifica nel bel mezzo del deserto quotidiano.
Please, don’t take it easy.
Mi sembra, a pensarci bene, una perfetta sintesi di cosa davvero ci si può aspettare di conquistare con una pratica meditativa costante: maggiore consapevolezza, migliorata capacità di concentrazione, lucidità di pensiero e libertà dalla schiavitù dei pettegolezzi mentali. In alcuni casi persino perdono e gratitudine, ad esser bravi per davvero.
Questo però è il risultato di innumerevoli tentativi e altrettanti innumerevoli fallimenti incontrati in più che innumerevoli (e a volte frustranti) sessioni. Ma se si può semplicemente scegliere una posizione relaxed and alert, non si sta annullando ogni senso al percorso che si sta per intraprendere? Non si rischia di far percepire come banale qualcosa che invece richiedere più e più sforzi?
Quando la semplificazione (o l’alta performatività, suo contrario) contamina attività così legate alla crescita personale e al miglioramento di se, sono sempre portata a pensare che qualcosa nel nostro approccio culturale a quella disciplina si sia guastato.
Se anche meditare serve solo a farci diventare più bravi a memory o più abili a contare fino a dieci prima di bestemmiare, beh, allora c’è poco da stare relaxed. Al massimo si deve essere molto alert.
Ma si può ancora sperare.
La campagna Bedtime Stories dei City Lodge Hotels ideata da TBWA\Hunt\Lascaris è rivolta ai business traveler che, stando ad una ricerca dell’Harvard Business Review, soffrono spesso per la mancanza di sonno durante i loro spostamenti. Almeno il 75% degli intervistati.
Per aiutarli, la catena di alberghi ha ideato una playlist di meditazioni ispirate alle app che promettono calma e relax. Ogni storia serve per spedire a letto i business people facendoli sorridere. Ma tutta l’operazione si basa dichiaratamente su una playful playlist of misguided meditations, che implica una chiara idea di (e un sottile rispetto per) cosa siano invece quelle più decisamente well-guided.
“Your are even the boss of your stress which means you can fire it.” rischia comunque di diventare una frase motivazionale da profilo LinkedIn.
Perché respirare è un lavoro duro.
Seppur immerso in quella narrativa tossica per cui c’è un Mac per ogni Hard Work -narrativa per cui si può pretendere di ottenere dei buoni risultati in sempre meno tempo quando di mezzo c’è una macchina che può far tutto- il cameo di Eve Lewis Prieto, Director of Teaching Meditation and Mindfulness at Headspace infrange la prospettiva generale.
Allenare, programmare, comporre, creare, è un duro lavoro, certo. But is it as hard as breathing? Chiede lei. E la risposta genera silenzio. Inceppa il flusso. Non arriva. Perché no, non c’è un duro lavoro più duro dell’imparare a respirare. Certo, interrompere le notifiche delle mail aiuta ma il viaggio da intraprendere verso la relaxed alertness è troppo lungo e complesso per stare dentro uno spot.
Anche se è un director’s cut della Apple.
Tra l’altro anche i commercial di Headspace avevano finito per spacciare ogni sessione come un evento riparatore dei guai giornalieri. -no comment-
E quindi per questo settembre appena spuntato cosa possiamo augurarci se non di diventare professionisti nell’antica e dura arte del respirare, sperando di imparare ad essere il più possibile rilassati e vigili?