Stavolta i pensieri si sono impastati con le parole incise. Ci sono almeno due passaggi, riscoperti o scoperti quasi per caso, che hanno superato l’ostilità che fa da barriera di confine e si sono ficcati nel cervello come chiodi nella croce.
Cose che non ho.
Cose che non ho dei Subsonica, ottava traccia dell’omonimo disco del 1997, è come Siddhartha di Herman Hesse, cambia e riverbera vertiginosamente di nuovo significato ad ogni lettura.
La costante sensazione di mancata appartenenza di cui parla ha reso comprensibile e comunicabile ogni forma di percezione e di estraniamento, geografico e temporale, che non poteva avere nessun altro nome, aggettivo o parafrasi. E si è rivelata in questi giorni ancora più autenticamente spietata.
Quando torni in un luogo ben noto senza che nessuno ti aspetti, avviene un'inversione. Scopri che non sei più tu, ormai, ad aver lasciato quella terra per portare semi e fioriture altrove ma è la terra a suggerirti, rivendendoti, di aver deciso di non appartenerti più. Dichiara senza mezzi termini, in ogni dettaglio dello scenario circostante, che è stata lei a cancellare le tracce del tuo passaggio, le impronte della bici sul selciato, i baci all'angolo della strada, le ginocchia sbucciate, i pianti asciugati al sole, la vita appesa sui balconi, il sorriso atteso nella cornice della camera da letto. È stata lei ad emanciparsi da te. Puoi tornare, certo, tutte le volte che vuoi. Ma solo per ricominciare a tremare di notte, solo per farti squarciare il cuore. Come un innamorato non ricambiato, come un vecchio compagno di classe che finge di non riconoscerti se ti incrocia per la strada. Come una madre sopraffatta dalla collera e dal dolore.
Eppure ci sono tracce indelebili che mi cercano, forse per segnalarmi con maggior precisione ogni grammo di ogni cosa che ho perso. Il saluto di chi ha fatto un pezzo di strada con mio padre, ad esempio. Quel sorriso malinconico che accompagna il ricordo davanti a una foto di almeno quindici anni fa mi porta sempre le lacrime agli occhi. E riconosco l'ancestrale sensazione provata fin dall'infanzia di voler essere in grado di ripetere l’impresa a tutti i costi, di meritare un'autorevolezza sentita collettivamente, di assomigliargli quel poco che posso per portarmi rispetto.
È più o meno a questa altezza, che sono inciampata in altre parole.
Meno cantante, più incantante. Nel Credo che Simone Cristicchi ha inciso quest’anno come sesta traccia del suo Dalle Tenebre alla Luce c’è qualcosa che somiglia tanto ad un lungo e accorato avviso ai naviganti. Ci sono verità supreme, concetti superati e poi bagliori taglienti. Che fanno da ponte tra chi c’era e chi si potrà diventare.
Credo che chi non vive il presente sarà sempre imperfetto pure da trapassato perché la vera sfida è debuttare ogni giorno, tutto il resto è repertorio.
Tradizione vuole che in questo ultimo giorno dell’anno si celebri la nostra appartenenza ad una forma di cultura, che definisce popolare solo chi non ne comprende la filosofia, guardando 32 Dicembre, film diretto e interpretato da Luciano De Crescenzo nel 1988.
Ispirato al libro Oi dialogoi, la pellicola è divisa in tre episodi e nel primo Ypocrites, il professore De Crescenzo disegna, più che spiegare, il concetto di tempo per Socrate. Un concetto affascinante e disarmante. Che ho condiviso con tutte le persone che amo, più volte nella vita. E che nelle ore che scivolano verso un anno nuovo ha un sapore, un senso e un peso specifico di gran lunga superiore. È consiglio, profezia e quasi derisione. Si attacca addosso con la sua bellezza e la sua difficile esecuzione.
Il guaio è che gli uomini studiano come allungare la vita, quando invece bisognerebbe allargarla.
Bisogna sempre stare attenti a quello che si desidera. Pensarci bene prima di spegnere le candeline, prima di farsi promesse, prima di cancellare numeri di telefono, prima di gettar i diari degli anni passati, prima di strappare lettere scritte da chi non siamo più a chi forse non è mai stato.
Bisogna dosare i bisogni, affrontarli come desideri risolti, e farsi guidare da quello che corpo e anima richiedono come necessario. Tutto il resto è un biglietto della lotteria di cui si può fare a meno.
Sarà stato questo il tema e anche lo svolgimento che il team creativo dell’agenzia BWA\NEBOKO ha inseguito nel 2018 per promuovere la lotteria statale olandese inventandosi un personaggio come quello del cagnolino Frekkel, diventato a suo modo un’icona da merchandising.
E con la stessa ingenua sorpresa scopro che c’era, in una delle canzoni della mia infanzia -complice il giradischi di mia madre e il 33 giri della sua primogenita-, ogni principio meditativo che continuo imperterrita a cercare come se nessuno me l’avesse mai sussurrato prima.
E non lasciare andare un giorno
Per ritrovar te stesso
Figlio di un cielo così bello
Perché la vita è adesso
Per cui abbandonate i calendari, le monetine da gettare nelle fontane, gli orologi da regolare all’estero e riprendete le agende dell’89, i sogni del ’94 e gli auguri mancati del 2017. Radunateli tutti. Radunateli adesso. La vita è adesso. Il tempo non ha alcun senso, se non quello del presente. Di un nuovo tempo presente, almeno, che potremmo definire presente esplorativo.
Il presente esplorativo è fatto di tutto quello che manca nel futuro e di tutto quello che ha plasmato il passato. Contemporaneamente. Ed è fatto per esplorare, ed esplorarsi. Che significa andare avanti sempre, anche quando sembra di tornare indietro.
E se vi appare astruso, scritto da me, sappiate che questo pensiero è una sintesi rubata a T.S. Eliot, che in Little Gidding del 1943 ci ha regalato parole di cui, modestamente, io non potrei essere capace mai.
We shall not cease from exploration
And the end of all our exploring
Will be to arrive where we started
And know the place for the first time.
Una costante mancanza di appartenenza..........non essere mai di nessun posto vivere sempre in prestito con la costante sensazione che prima o poi devi andare perché non appartieni. Non per scelta ma perché la vita ti ha appoggiato lì.....
Cose che non ho, una canzone che dovrei ascoltare oggi. L'ho cantata molte volte da ragazza e poi l'ho messa da parte. Fino ad ora, grazie a te.