É una cosa di cui forse dovrei vergognarmi un po’ ma ho ascoltato per intero, senza soste e senza rumori di fondo, l’ultimo album dei The Cure solo dopo aver letto che, delle 40.000 copie vendute nella prima settimana di uscita, più di 36.000 erano copie fisiche.
36.970 per l’esattezza, in quel momento.
Ho inevitabilmente romanzato l’evento e ho immaginato 36.970 persone andare ognuna con piglio sicuro dal proprio spacciatore di fiducia, entrare in uno di quei piccoli sgabuzzini pieni di dischi, polvere e archivi storici di altre ere, chiedere o mostrare alla cassa una copia del disco e pagare, varcando la soglia a ritroso in religioso silenzio.
Io cerco sempre di gironzolare senza alcuno scopo, spinta dal mio altrettanto ossessionato consorte, in posti come questi. Negozietti di quartiere, avamposti di arte dimenticata, disconosciuta o lasciata orfana al mondo dopo la dipartita del legittimo proprietario.
Dicevo, ho romanzato, perché di sicuro non sarà andata così.
Ma di sicuro oggi nel mondo ci sono 36.970 persone che hanno qualcosa in comune.
Persone che hanno preteso che un oggetto fisico, un supporto reale, le aiutasse ad elaborare l’incontro con quella musica, che ne reggesse il peso attestando con la sua tangibile consistenza la liceità dei loro sentimenti. Perché le note si imprimono nei solchi dei vinili, sulla superficie candida dei cd o sul nastro delle musicassette solo per rendere terreno e concreto qualcosa di impalpabile. In questo caso, un sentire angoscioso e asfissiante che è anche resistente e liberatorio.
E per quanto sparse nel mondo, penso a queste 36.970 persone come ad una comunità di esseri umani, legati da fili invisibili che si tendono alle loro spalle e non si annodano mai per pura casualità.
Quante di queste persone poi si sfiorano nei corridoi asettici delle multinazionali che gli pagano lo stipendio e si rivolgono il saluto, standosi pure un po’ antipatici, senza sapere che li accomuna un senso dell’apocalittico e dell’assoluto che li rende quasi fratelli?
Insomma, tutti loro hanno una copia di "Songs Of A Lost World” nel soggiorno di casa, in camera da letto o in macchina. E io volevo essere come loro. E, sentendomi parte di quella piccola grande setta, ecco, ho percepito in ognuna di quelle tracce un senso di umanità che prima mi sfuggiva.
The best way to discover what is special about yourself is to do it from the outside in (…) by engaging with others.
Malcolm Gladwell, in un video pubblicato qualche giorno fa sul suo profilo Instagram, racconta questa sua teoria per cui riflettere su se stessi, cercare di conoscersi meglio, guardarsi dentro non basta per trovare le proprie qualità più eccellenti. La vera unicità si rintraccia guardandosi dall’esterno, attraverso gli occhi degli altri. Lasciandosi sfidare dal loro punto di vista.
Credo che mi abbia colpito perché è un concetto controverso. Sono tanti i pianeti a doversi allineare nel verso giusto per permettere incontri di questo tipo. Ma mi ha sicuramente stupito perché, senza conoscerla, è esattamente questa la teoria che ho messo in pratica mesi fa. E che ancora mi guida in questa stramba avventura personale e professionale.
Ritrovo, a volte anche senza cercarli, ex colleghi e persone conosciute decine di anni fa, che ancora conservano di me un ricordo, a volte memorie di cui io stessa non ho più memoria, ma che mi restituiscono un senso di me che sono certa andrebbe perduto altrimenti.
E in fondo è quello che faccio in ognuna di queste righe. Ricostruire la matrice di pensiero che lega le scoperte fatte negli ultimi sette giorni con quelle accantonate negli ultimi trent’anni. Per condividere quello che ho imparato, e provare a tenere il conto di quello che ancora c’è da imparare.
A guidarmi in ognuna di queste azioni c’è un unico comandamento, che potrei definire il dodicesimo (visto che Vasco s’è preso il numero 11) ovvero non fingere. Che non è l’ottavo, no. Non dire falsa testimonianza implica la consapevolezza che mentire possa portare vantaggio ad una delle parti in causa. Mentre a fingere, nella maggior parte dei casi, non ci guadagna niente nessuno.
E così mi diletto nella sua coniugazione.
Non fingere di sapere.
Che ammettere l’ignoranza è una forma di intelligenza.
Non fingere di venire.
Che la felicità condivisa non ammette dividendi impari.
Non fingere di capire.
Che ascoltare in silenzio riduce il fascino dell’aver sempre ragione.
Non fingere di vedere.
Che al buio gli altri sensi restituiscono corpo alla verità.
E già che ci siamo.
Non fingere di non usare ChatGPT
o al massimo insegnale a fingere nella maniera più autentica possibile.
Eh sì perché a me l’intelligenza artificiale piace, quando si lascia usare come un compagno di giochi a cui insegno ad aprirmi strade che da sola non avrei neanche immaginato. Ma non mi faccio sostituire da lei come fossimo due gemelline identiche in una brutta sit-com degli anni ottanta.
Eppure la versione presentata da Apple Intelligence che ci vuole tutti lavativi e smemorati, sembra convinta del contrario. Convinta che delegare l’intelligenza, o almeno la sua parvenza, a qualcun altro ci salverà da ogni pantano lavorativo, esistenziale e relazionale.
Non solo mi permetto di nutrire qualche dubbio a riguardo ma mi impegnerò a provare a diventare più intelligente da me, senza demandare questa mia capacità ad entità esterne ed estranee. Perché non potrei mai scrivere cose che non sarei in grado, o non avrei il coraggio, di ripetere a voce. Cose che si farebbe presto a scoprire false, farina di un sacco che non è mai stato il mio.
A pensarci bene, fingere o lasciarsi fingere è un gioco a perdere.
Se l’unica cosa che si desidera è una vita che ci assomiglia, dobbiamo pensare ad ogni giorno come alle caselle del muro di post-it piantato nella metropolitana di New York dagli ideatori del progetto Subway Therapy.
Scrivere di proprio pugno il pensiero più crudelmente onesto che ci viene in mente, guardarlo in faccia senza timori, consegnarlo agli altri pur non potendo mai vedere l’espressione perplessa e sorpresa di chi ritrova nelle nostre parole quelle che aveva perso molto tempo prima: a me questo esperimento sembra esprimere ciò che di più umano c’è nell’umano. Collettivo.
E se gli americani avessero finto davanti a quei foglietti colorati, quei muri non starebbero moltiplicandosi in ogni città dal 2016, e non avrebbero costituito un osservatorio particolare sull’America post elezioni presidenziali.
In fondo, come potremmo mai pensare di trovare una di quelle 36.970 persone che ci somiglia se la nostra unica strategia di ingaggio è fingere di essere quello che non siamo?
Sono uno di quei 36.000 e ho acquistato "Songs Of A Lost World” in vinile. Completamente in disaccordo con il commento precedente, secondo il quale una band fatto il suo corso dovrebbe sciogliersi?!? Non sono un fan dei Cure, ma questo è un gran disco (mia opinabilissima opinione) e di sicuro non una mera opinione nostalgia.
Hai detto bene. Una setta di cui non mi sento di fare parte. Una tipo quella che ha gridato al capolavoro, perché non POTEVA essere altrimenti, per l'uscita Now and then dei Beatles: in realtà una semplice curiosità, un esercizio tecnico, in definitiva un appunto che sarebbe rimasto scarto (peraltro dall'andamento molto deprimente). Quella dei Cure è una ripetizione fuori tempo di quello che fu, che prova ad illuderci che siamo ancora quelli di decenni fa.