Sì ma che lettera? Una lettera.
A pagina 6 del romanzo Una questione privata di Beppe Fenoglio, Fulvia annuncia a Milton che starà via per una settimana. Il futuro Milton brancolò di fronte all’enormità, all’invariabilità di tutto quel tempo, scrive Fenoglio. “Restiamo intesi fra una settimana esatta. Tu però nel frattempo mi scriverai”, chiede Fulvia. “Una lettera?” “Certo, una lettera. Scrivimela di notte” “Sì, ma che lettera?” “Una lettera”.
Ho pensato, leggendo questo passaggio, che era una strana lettera quella, per stare in una storia di amore e guerra ai tempi dei partigiani.
Non era la lettera implorata dal soldato al fronte come filo invisibile per assicurarsi la sopravvivenza e un buon motivo per tornare a casa, con tutte le ossa a posto. Ma era una lettera chiesta per ingannare il tempo, per dare un senso all’attesa di un ritorno certo. Per fermare su carta una nostalgica meraviglia che solo nella distanza si può imbastire, confezionare, trattenere e poi consegnare.
Le ultime lettere mai scritte, le ho scritte tutte nella distanza. Scritte per persone che mi avevano lasciato a casa, partendo per mete nuove, geografiche e d’esistenza, avendo la gentile creanza di indicarmi l’indirizzo a cui avrei potuto ritrovarle.
Era anche quello un modo per ingannare le ore e restare attaccati alla vita, di prima.
Poi ho smesso di ricerverne, di lettere da altri mondi. Di sicuro ho smesso di richiederle. Ma soprattutto non ne ho più spedite. Certo ho composto mail di commiato, sarcasticamente accompagnata da ballate di Leonard Cohen, ma non è la stessa cosa. Ed è in questa astinenza che è cambiata anche la mia relazione con lo scrivere in senso stretto, che in quel contesto intimo aveva la sua massima forma d’espressione. Libera. Invincibile.
Probabilmente è a quella forma di scrittura, che vorrei provare a riavvicinarmi. Quella che rende meno stranieri i fuggitivi, che confessa progetti e prospettive senza paura di ritorsioni, che pretende di elaborare idee, sentimenti, opere e omissioni. E si aspetta sempre di aprire un varco a repliche differite, in una sorta di conversazione pendente.
Anche i copy scrivevano lettere.
Tra le lettere più belle che io abbia mai letto c’è un annuncio per accalappiare nuovi account scritto da un copywriter della Doyle Dane Bernbach. Qui la scrittura crea vicinanza, riduce lo spazio di separazione tra uno sconosciuto e un futuro collega, e si prende la briga di trattarlo già come tale. Assicurando di non omettere verità essenziali. E chiedendo onestà, in cambio di onestà.
È fatta di costrutti brevi e taglienti, che spingono alla riflessione, di parole meditate, che fanno spesso tornare sui propri passi, a rileggere certi pensieri. Che interrompono la velocità del flusso con l’esigenza di ripetere il gesto. Per interpretarne correttamente il segno.
Come ribadisce la scrittrice sarda nel primo episodio del podcast Rai Play Sound “Voci di Michela Murgia”: quelli che dicono che le parole non contano, non hanno capito niente. Noi siamo fatti solo di parole.
E riassemblare le sue, componendo uno zibaldone dei pensieri attinti dagli archivi Rai, attraverso vecchie interviste e inediti interventi, è come provare a fare ordine tra le cose lasciate in eredità da chi non c’è più, per ricucire il filo e spezzare il peso dell’assenza.
C’è sempre un motivo.
Anche per non scriverle.
È inevitabile, come per un’opera postuma, chiedersi se quei concetti, a tempo debito e con il giusto contesto, quella persona li avrebbe espressi e magari scritti con parole differenti, sapendo con certezza a chi li stava indirizzando.
E anche quante delle profonde riflessioni allegate alle foto di Instagram, ai grandi annunci su LinkedIn o affidate con coraggio alla newsletter del martedì mattina avrebbero vesti e corpi differenti se dovessero diventare delle lettere?
Lettere capaci di ammassare il tempo dentro le parole, farlo risuonare e riverberare nelle cassette di stagno in cui vengono infilate, per riportare a memoria ogni cosa, quando serve.
Dovremmo tornare a scrivere con il solo compito di rendere indimenticabile qualcosa di dimenticabile. Come una settimana di assenza, un annuncio di lavoro o una privata idea di mondo.
In fondo, bisognerebbe confessarsi che la scrittura non è altro che un modo per lasciare una traccia. Per rendersi indimenticabile.
E allora forse è per questo che si smettere di scriverle, le lettere.
Semplicemente per non subire l’onta di vedersele restituite intatte.
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Scrivo lettere alle mie figlie per ogni loro compleanno (le apriranno quando saranno grandi). Scrivo lettere ai miei genitori anziani per ogni loro compleanno (le aprono subito, ma non in mia presenza). Nel primo caso, scrivo per far emergere il passato nel futuro. Nel secondo, per ricordare il passato nel presente.
Bel pezzo, grazie per averlo scritto.
Io sono una grande amante delle lettere — ne ho scritte tante, perlopiù consegnate a mano, l’ultima delle quali una manciata di giorni fa. Sai cosa ho scoperto? Che scrivere su carta mi fa uscire parole diverse, meno ordinate ma più incisive, rispetto allo scrivere digitale. Le mie note sull’iPhone, per quanto anch’esse contengano “lettere”, sono distanti anni luce dalla carta vergata, piegata, imbustata e sospirata.