Il mio maestro di meditazione ha annunciato con un certo orgoglio, il suo, che sono pronta a passare ad un livello avanzato. Dire che la notizia mi abbia colto di sorpresa è un eufemismo. D’istinto e silenziosamente mi sono chiesta: “Come fa a non essersi accorto che sono sempre più in debito di ossigeno?”. Sì, perché ci sono giorni in cui respirare profondamente, dopo aver preso posizione e fatto buio agli occhi, è un gesto rivelatore non solo di come andrà a finire ma anche del mio stato di salute generale.
A me, in molti casi, si mozza il fiato in entrata.
Come se i miei polmoni avessero deciso di non meritare la capienza massima, di non potersi permettere l’accesso di tutta l’aria possibile, di considerare l’espansione totale una forma di doloroso colpo di stato, al cui posto un umile affanno di stampo emotivo, capace di provocare tangibili conseguenze fisiche, appare più elegantemente proletario. E quindi consono al mio rango d’appartenenza.
Succede tutte le volte che espormi a me stessa mi terrorizza.
Tutte le volte che mi sembra di sottrarre più che di aggiungere. Speranza, presenza, crescita, credibilità. Come si fa ad essere pronti per un livello avanzato in questo stato? A quanto pare è proprio questa mia confidenza con il respiro e le sue paturnie a permettermi di salire di grado rispetto a chi ha appena iniziato. Perché il fatto stesso che mi faccia ancora (ma da sempre, vorrei confessare) tutte queste domande sulla mia idoneità, mi rende più idonea di quanto si possa pensare. Di quanto io stessa possa pensare.
Sorrido.
Perché finisco senza volerlo per ripassare a memoria una vignetta di Charlie Brown.
E ripensare alla quantità di risposte che ho sempre provato a darmi e che in realtà forse erano il riflesso di domande malcelate. O più spesso malriposte.
Non credo di avere niente di speciale. Anzi, credo che parta tutto, per tutti, dalle prime indagini sulla nostra identità, dai primi confronti con il resto del mondo, dalla prima idea che nutriamo di noi stessi e che passeremo tutta la vita ad inseguire, come se si fosse cristallizzata in stalattiti appuntite, abbarbicate in alto dentro qualche oscura caverna nascosta e per questo cocciutamente irraggiungibile.
The Mortified Podcast sintetizza più di ogni altro tentativo la mescolanza di sorrisi e lacrime che accompagnano la ricerca di quella oscura caverna, muovendosi attraverso immedesimazioni ed empatie per gli altrui momenti di imbarazzo e stati di rivelazione. La serie permette a chi vi partecipa di condividere pagine di diario scritte da adolescenti e lette, quasi per uno scherzo del destino, dalla propria voce di adulti. Raccontano le esperienze più spinose e sconcertanti, quelle più rabbiose, le proiezioni sul futuro promesso e immaginato, per se stessi e per il pianeta che, a leggerle oggi, fanno un effetto a dir poco distopico.
Ho scoperto, andando più a fondo, che il podcast non è solo un podcast. Il format è così fertile da avere nutrito merchandizing, libri, siti web ed essere sbocciato in una miniserie The Mortified Guide, selezionata ufficialmente al Sundance Film Festival nel 2018 poiché - e cito il loro sito- questa serie unica e sincera celebra le imbarazzanti insicurezze che hanno plasmato tutti noi.
Procura una strana sensazione dover imparare a guardare indietro per raddrizzare il percorso che porta in avanti. E ammettere così che si passa metà della propria esistenza sui mezzi pubblici e l’altra metà a ricercare le risposte perdute, o a riformulare le domande frettolose, concedendosi di riprendere fiato solo passando da un binario all’altro.
Sarà per questo che mi è tornata in mente, pura reminiscenza da diario scolastico del liceo, la domanda che Socrate fece ai suoi concittadini durante l’arringa difensiva, raccontata da Platone nell’Apologia.
«Tu che sei ateniese, cittadino della più grande città, non ti vergogni a darti pensiero delle ricchezze per ammassarne quante più possibile, e della tua anima, affinché essa diventi quanto più possibile ottima, non ti dai cura?»
Poco più tardi, sempre a sua difesa, coniò un pensiero che a mio avviso dovrebbe essere ben più celebre della sua famosa ammissione di ignoranza, ovvero che una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta.
Mi appare così straordinariamente socratica la scelta di Open AI di integrare una funzione Memory in ChatGPT. Una funzione che ha memoria a lungo termine ed è capace di ricordare quel che di noi stessi lasciamo trapelare durante le conversazioni.
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È una memoria funzionale che serve al chatbot per personalizzare le sue risposte negli scambi a venire, probabilmente rivenderà suddetti dati al migliore offerente alla prima occasione ma contiene quasi qualcosa di metafisico.
Grazie a Memory, l’Intelligenza Artificiale interrogata sui massimi sistemi relativi alla nostra persona potrebbe rivelarci aspetti di noi che non avremmo avuto mai il coraggio di confessarci. O di guardare con gli occhi di chi non ha anima.
Eppure, a quanto pare, solo rispondendo a domande a cui pensavamo di non poter mai dare soddisfazione possiamo avvicinarci alla nostra versione da livello avanzato. Quella che non teme confronti con diari e incontri casuali con compagni di banco o di bevute, ma prova ad imbastire il miglior prototipo di essere umano in divenire che la genetica, l’infanzia e gli amori non corrisposti rendono possibile e alla nostra portata.
È solo un altro modo di vedere la vita come un palinsesto.
Non quello dei programmi alla tv ma quello che per i filologi è il processo equivalente al pentimento degli artisti visivi (grazie terza stagione di The Crown). Il palinsesto era un manoscritto redatto su papiro o pergamena che, dopo aver raschiato via la prima versione, poteva essere sostituito, scrivendo nello stesso verso o in senso trasversale al primo.
Erano epoche in cui il supporto era più prezioso delle parole che poteva contenere.
Ma ci dice che non c’è niente di sacrilego nel ripartire ancora (una volta), comporre domande senza fetta, riformulare risposte in corso d’opera, col buon proposito di dare una mano di vernice fresca ogni tanto. E ricostruire verso l’alto da un piano che si approssima allo zero. Sentendosi liberi di riscrivere la trama, dettare una diversa linea editoriale, sviando il destino dei protagonisti e magari sovvertendo il più scontato finale.